L’Italia che distrusse le ”ferriere” del Sud (di Romano Pitaro)

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Una vecchia stampa di Mongiana con i soldati borbonici in difesa delle ferriere

“Papà, è duro e stantìo”, rispose    il ragazzo, “meschinello nell’aspetto”, al re che  chiedeva: “Né, Ciccì, tu magni senza pane?”  Stupito della riposta “Re Bomba”, il  “re illiberale e  sanguinario”,  troncò seccato:  “Magnatello, e l’avarrissi sempre! Vi  magnano i surdati, che ssò meglio e nui”. Ricorda  lo scambio di battute tra Ferdinando II e il figlio  in viaggio nelle Serre, Vito Scopacasa, 50 anni, nato a Port Arhur in Canada da dove è rientrato all’età di 15 anni dopo la morte del padre sul lavoro,   medico e   sindaco di Mongiana. Un borgo di  800 anime “che campano di forestale”.  E’ accanto alle colonne in  ghisa  di ciò che è rimasto della borbonica  “Regia Ferriera”  le cui officine spaziavano in  un’area di 2 chilometri lungo i  fiumi Ninfo ed Allaro.  La più grande acciaieria d’Italia prima che l’Italia nascesse. Sventola, orgoglioso, il progetto   che ha ottenuto   600 mila euro dalla Regione, per fare di ciò che è stato il baricentro della siderurgia del Regno delle due Sicilie  un punto d’interesse turistico: “E’ un sogno che si realizza”.  Il vicesindaco, Franco Sibio, gli scatta una foto tra le due antiche colonne, non ride Scopacasa.  La gente guarda la scena con indifferenza suprema. Qui non c’è niente da ridere.    Si disse, nel 1861,  che in futuro gli altiforni della  siderurgia dovessero sorgere in pianura.  Le rotaie delle miniere delle Serre  furono vendute a peso. Nacque l’acciaieria di Terni, guarda caso: sui monti.  Ci furono proposte: al governo dell’Italia liberale gli operai delle Serre   offrirono di ridursi la paga, supplicarono  attenzione.    Ci furono  proteste: il tricolore sotto i piedi, no al referendum per l’annessione, l’ assalta alla sede della Guardia Nazionale, si formarono due bande, le donne in piazza al grido di “Viva don Ciccio” (FrancescoII) e  la bandiera bianca con i gigli. Ci furono partenze:   al  Nord, negli Stati Uniti, in Canada e  in America latina.  Veniva soppressa, di punto in bianco, dall’Italia di Cavour e di Vittorio Emanuele II,    un’ industria risalente ai  fenici che dava lavoro a 3000 persone. Annientato un polo industriale di cui oggi rimangono soltanto  le rovine.  Lì fu realizzato il fucile da fanteria modello Mongiana. Lì  videro la luce i primi ponti sospesi in ferro d’Italia, il “Real Ferdinando” sul Garigliano ed il “Maria Cristina” sul Calore.    Ora, dopo  148 anni di silenzio sul clamoroso  scandalo con cui l’Italia   appena fatta mostrava a questa parte del Sud il volto peggiore, si tornerà a parlare del triangolo industriale (Mongiana/Stilo/Ferdinandea) della penisola italiana che sorgeva nell’area oggi  più emarginata del Paese (Nardodipace, a un salto da Mongiana, è il paese più povero d’Italia).  

Vito Scopacasa, Sindaco di Mongiana 

In tutto questo tempo, della realtà industriale di Mongiana  è stata cancellata ogni traccia di memoria storica. “Neppure quando, qualche decennio fa, la Calabria subì la beffa del mancato V centro siderurgico” ricorda Mariolina Spadaro, docente  alla “Federico II” di Napoli, “ci si ricordò di questo precedente illustre ormai completamente  rimosso”.     E’ ottimista, però,  il sindaco: “Adesso saranno recuperati gli stabilimenti per farne un museo.  Già in estate, se tutto fila liscio, i turisti potranno capire quant’era florida l’economia della zona prima dell’Unità. Dopo decenni  d’insistenze, nascerà una Fondazione che ridarà vita alla Ferriera ed agli altiforni sparsi qua e là”.      Il sindaco indica altri preziosi dettagli del museo che sarà. Poi  ritorna al re borbone e al figlio  che si lagna del pane duro. Il cameriere Galizia s’era scordato di fornirsi di pane fresco e servì, in quella breve sosta,  il pane della truppa con due polli.    Viaggiavano con la carrozza reale, la nuovissima daumont.  Erano, superata da un pezzo l’Angitola,   dopo San Nicola, a Centofontane. Tra qualche ora sarebbero giunti a destinazione: 12000 soldati avrebbero  alloggiato nelle Serre.  Dove andava quel convoglio militare il 13 ottobre 1852? Top secret.  O quasi.    Fu un viaggio  sorpresa solo per l’intendente di Catanzaro, che all’ora dell’arrivo reale stava dormendo e per il vescovo, che non lo andò a ricevere e pagò con due mesi di esilio a Napoli. “Re Bomba” si fermò a Serra, supplicato dall’arciprete e dal clero; s’inginocchiò dinanzi al busto di San Bruno, chiese ai sacerdoti che lo raccomandassero alla Madonna e subito   proseguì il suo viaggio segreto. Direzione: Mongiana (cosi chiamata dal nome di un  torrente che  scorre li vicino  o per  la frase che alcuni funzionari francesi si scambiavano all’ora del pranzo: “Mangez-nous”). Dove c’era la Reale Ferriera cui davano impulso le Officine di Pietrarsa dopo gli interventi di modernizzazione decisi  da Ferdinando II, che a Mongiana aveva spedito i migliori mineralogisti sassoni ed ungheresi per formare gli operai.   Lì il borbone andava a visitare la nuova fabbrica d’armi sorta dopo che un alluvione aveva distrutto la  vecchia. A visionare, con i propri occhi, la ferriera che consentiva al  Regno di essere autonomo nella produzione di armi e di vantarsi di un’opera eccellente. Al punto che lo zar la  fece riprodurre identica in Russia inaugurando le Officine di kronstadt.   Mongiana: per arrivarci dall’Angitola c’è un’ora di curve moleste.  Deserto imprenditoriale ed emigrazione a fiumi.  Ma c’è stato un tempo in cui, prima che giungesse Garibaldi, le Regie Ferriere  davano di che vivere a tutti gli abitanti della zona. Prima dell’Unità d’Italia,  il polo siderurgico calabrese era una realtà industriale d’interesse internazionale.  La prima ferrovia del Regno delle due Sicilie, la  Napoli-Portice,  inaugurata nel 1839, si fece col ferro di Mongiana.  In quell’area si concentravano le ferriere di Stilo, Pazzano e Mongiana, e nel 1769 fu creato, al centro delle Serre, lo stabilimento siderurgico di Mongiana. “Dalle Serre – scrive lo storico  Augusto Placanica – il ferro,  fucinato e lavorato con produzione fra l’altro  di fucili e cannoni per l’esercito, veniva portato alla marina di Pizzo, e di qui avviato per mare ai mercati d’assorbimento…”  Forse l’epoca in cui in Calabria si usava fondere con forni itineranti  il rame,il piombo, l’argento e il ferro servendosi di forni itineranti risale addirittura ai fenici.  Secondo la ricerca condotta dagli architetti  Brunello De Stefano Manno e Gennaro Matacena sulle Reali Ferriere,  “le miniere di ferro di Stilo (fornivano la materia prima a Mongiana)  furono donate dai Normanni a San Bruno con un atto sottoscritto da Ruggiero il Gran Conte. Anche gli Svevi e gli Angioini sfruttarono il ferro nelle viscere della roccia Consolino ( sopra Stilo). 

I ruderi delle antiche ferriere

Le miniere erano  date in concessione agli “arrendatari”, che versavano una rendita annua alla Certosa ed al re. Nel 1523 Carlo V donò  le miniere a Cesare Ferramosca,  fratello di Ettore, capitano degli undici italiani vittoriosi sugli undici francesi nella disfida di Barletta. Ma Cesare non aveva l’arguzia  del fratello e lasciò perdere. Quando toccarono ai Borboni,  le ferriere calabresi fecero parte del piano della metallurgia voluto  da Ferdinando IV.  Le Regie Ferriere (gli stabilimenti di  Mongiana e  della Ferdinandea) furono il mercato più generoso per l’occupazione serrese: bovari, per il trasporto del materiale, carbonai, lavoratori boschivi, quindi gli artigiani, maestri fabbri ferrai, “i quali si imposero per la loro bravura, quando annessa alla fonderia sorse una fabbrica d’armi”, ma anche per la produzione d utensili vari.  Tutto fini,  incredibile ma vero, con Garibaldi.  Sbarcato in Calabria  e salendo lungo la costa tirrenica,  sostò a Pizzo e da lì inviò 1370 uomini comandati dal capitano Antonio Garcea con l’ordine di occupare Mongiana, “requisire lo stabilimento, la fabbrica d’armi, cosi importante per l’economia di quella marcia verso Napoli”.  Qualche innocua fucilata e la resa dei 25 borbonici  a guardia di Mongiana.  Cessavano di esistere le ferriere con la nascita  dell’Italia liberale. “L’antica isola d’industria mineraria che – scrive Pietro Bevilacqua, docente di storia contemporanea alla Sapienza e fondatore dell’Imes –  in età borbonica aveva prodotto quantità rilevanti di materiale ferroso  entrò in crisi a causa delle scelte economiche dei governi liberali che ebbero in Calabria conseguenze anche immediate. L’industria mineraria fu indubbiamente quella che per essere legata alle commesse governative sentì più repentinamente gli effetti della nuova situazione”.

I vecchi ruderi delle ferriere di Mongiana oggi 

La denuncia di  De Stefano/ Matacena è  scolpita nei numeri. Suffragata dalla massiccia   emigrazione che si ebbe nelle Serre,   specie alla fine dell’Ottocento. E fa capire quanto l’Italia tenesse in considerazione il Sud, specie il Sud del Sud: “Lo Stato unitario privilegiò subito la componente piemontese-ligure. Il nuovo governo favori spudoratamente la siderurgia ligure, tant’è che l’Ansaldo, che prima del 1860 contava la metà dei dipendenti di Mongiana, a Italia fatta li raddoppia, mentre, allo stesso tempo, sono dimezzati quelli del Meridione. Il Sud si troverà a recitare il ruolo di portatore d’acqua e i meridionali quello di braccia lavoro. Il Mezzogiorno, arrestato  dall’amputazione della gamba industria, non poté reggersi  sulla gamba agricoltura, perché neppure quella fu sviluppata.  Se oggi il Sud è degradato e diverso dal Nord si deve molto a quella lontana concezione di unità”.   Parole  di fuoco pronunciò  Nicola Zitara, meridionalista calabrese, su quella “strage” che lo Stato  appena nato fece  in Calabria: “L’unità d’Italia ha tutt’altro che occidentalizzato il Mezzogiorno. L’unificazione del mercato nazionale gli   ha spezzato le reni”. Migliaia di famiglie sul lastrico e la distruzione della  dell’industria delle Serre  alimentata da minerali ferrosi delle sue rocce,  organizzata da tecnici e operai del luogo, alimentata con  energia ricavata dai suoi ricchi e  splendidi  boschi. Un’industria d’interesse strategico per il Regno delle due Sicilie fu cancellata con un tratto di penna. E un’area della Calabria  condannata all’inedia e alla fuga. Quando nel 2011 sarà festeggiato il 150mo anniversario dell’Unità nazionale, il comitato interministeriale costituito nel 2007 con il  compito di pianificare  iniziative ed interventi,  potrebbe   inserire nel  programma le scuse dell’Italia alle Serre calabresi.   Tra le tante “scuse”  che, a drammi storici  consumati, si colgono qua e là,  queste non sfigurerebbero. Se non  altro,  potrebbero riconoscere lo scempio consumato.  Che fine fecero le ferriere di Mongiana dopo il Grande Evento? Pazzesco.  Mentre ancora nel 1861 la “Real Ferriera” è premiata all’Esposizione industriale di Firenze e nel 1862 all’Esposizione industriale di Londra, lo Stato italiano la butta via.  La comprò, una volta chiusa,   un certo Achille Fazzari.  In regolare asta a Catanzaro. Prezzo in un unico lotto: 524.667, 21 centesimi.  Chi era costui? Un sarto, poi  colonnello al seguito dell’eroe dei due mondi  e senatore  con l’Unità d’Italia; “divenuto infine”,  scrive sarcastico Sharo Gambino, lo scrittore delle Serre morto di recente,   “industriale per avere acquistato la Ferdinandea”.

http://www.consiglioregionale.calabria.it/calabriainforma_3/dett_agenzia.asp?prov=1&Codice=1630